Traduzioni da The Sadness
Elizabeth Bishop 100 (p.6)
Impossibile immaginare di farcela fin qui.
Quante volte dunque si può cadere giù dalle scale?
Rappezzata come le tazze della zia Maud –
Come siamo fragili! – una filigrana di riparazioni.
Ho sentito Lota sussurrare – da su o da giù?
Mi sono precipitata e – guarda! – il bicchiere
si è rotto. Ha chiamato qualcuno – era Frank? –
per dire che il cuore di Cal si è fermato in un taxi,
un fantasma quando è arrivato in città.
Potrebbero comprarlo quel taxi (lo pagherebbe un qualche Mecenate)
e parcheggiarlo per sempre nella 67a Strada.
Arte trovata: Qui morì il Poeta.
Un fascio di facsimili sul sedile posteriore,
macchie di urina. Difficile tenere a bada il disordine della mente.
Ma ci si riesce. La solerte Alice amministra e rimedia.
Puntellata a uno scrittoio pulito, bicchiere pulito, dispongo,
e ridispongo le vecchie parole. Il vecchio mondo ora
nessuno può cambiare. Siamo stati bravi amici.
trad. Giorgia Sensi
Poesia che comincia con un verso di Michael Glover
(Poem Beginning with a Line from Michael Glover, p.9)
Non sai quanto ti sono grato perché sei tu.
Pensaci: bastava una svista della mano divina
e potevi essere me. Non proprio –
avevo già otto anni – ma Sally forse, o Erica,
e sposata con Desmond, o con Sol. Tutto, a dir poco,
sarebbe più . . . intricato, anche se probabilmente
non ci conosceremmo affattto. Magari
ci incontreremmo in spiaggia, io a spasso
lungo la linea di marea, tu
a fare quello che farebbe
la moglie di Desmond, o di Sol: disegnare sulla sabbia
un campo di cricket per i ragazzi . . .
E mentre ci incrociamo e i nostri sguardi
s’impigliano, credi che ci sentiremmo sfiorati
dal fantasma di noi stessi, sospesi qui
in queste geometrie di vetro e acciaio,
con i nostri libri, il nostro timone del Kon-Tiki,
i quadri degli amici defunti, così lontani
da ogni mare? E in quell’istante sentiresti nascere
un desiderio indefinito, oppure un brivido,
e ti volteresti dall’altra parte?
trad. Barbara del Mercato
Vom armen P.P. (p.14)
(Patrick Procktor 1936 – 2003)
Com’è successo?
Non sei caduto, sei scivolato in disgrazia.
Nei tuoi anni da brasserie cavalcavi
il decennio con quei vistosi foulard,
lo scapolo prediletto delle avvenenti
gentildonne del Chelsea
(prima però del tuo matrimonio di facciata,
della nascita di tuo figlio).
Gli inserti nei settimanali,
le vernici in Cork Street
-i bei marocchini di spiaggia,
i singolari ritratti improvvisati, le copertine dei dischi . . .
“La mia maladetta facilità!”, ti schernivi,
e con un cenno della mano prendevi le distanze.
Ma c’era di più, e anche di meno.
Quando le cose peggioravano, fingevi
di essere troppo alto per accorgertene –
la critica ti escludeva dal novero della tua generazione,
i pescatori di apprezzamenti gettavano l’esca altrove.
Altri della tua cerchia godevano di successi esorbitanti
o immeritati, i tuoi amanti ti lasciavano,
la tua casa finì in fiamme.
La bottiglia che ti aiutava a essere te stesso,
o un te stesso che volevi far credere di essere,
gin dopo gin ti rendeva qualcuno
che nessuno di noi aveva premura di chiamare.
Essere ‘difficile’ diventò una tua posa,
la posa si fece tratto. Al tuo sobrio funerale
si repirava un’aria di puro sollievo: finalmente
tornavamo a ricordarci di te.
Ora che ci ripenso, la tua studiata disinvoltura
non sminuiva certo la tua arte,
ma il nostro modo di vederla.
Forse ti stava bene così,
nelle delusioni del tuo lungo declino
trovavi una specie di soddisfazione,
un cliché romanzesco
più che il verdetto di una sorte avversa,
come se l’abiezione quotidiana
fosse necessaria, perfino sufficente,
al perfetto compimento della vita-come-arte.
trad. Monica Pavani
Lampi sui confini (Shore Lightning, p.24)
Due notti su tre abbiamo guardato
lampi muti fendere le nuvole
da qualche parte sopra la terraferma
magari il cambio di stagione
l’arrivo del magnifico autunno, il caldo
che mai non molla senza lottare.
Tante volte contro il cattivo tempo
la laguna è uno scudo anti-missile, ne tiene il livore
a distanza, il braccio lungo di un adulto
che ammansisce il bambino infuriato.
Castellani di una fortezza inespugnabile,
appoggiati al parapetto ci godiamo
l’impetuosa frustrazione della tempesta
che, incapace di forzare la linea,
ne percorre il litorale percuotendosi il petto.
trad. Barbara del Mercato
Dove appendo il cappello è casa mia (Home is where I hang my hat, p.38)
Dove appendo il cappello è casa mia.
Per misero cunicolo che sia
C’è vista, ed è una buona compagnia.
Dove appendo il cappello è casa mia.
Dove bevo la zuppa a sorsi è casa mia.
Mi dondolo al tramonto sulla veranda
(non faccio parte di nessuna banda)
Dove bevo la zuppa a sorsi è casa mia.
Dove metto i bagagli è casa mia.
Non c’è inno, nè squadra nè bandiera
Da agitare vantandosi, la sera.
Dove metto i bagagli è casa mia.
Casa mia è dove scelgo di restare
Mi fermo forse fino a lunedì,
dopo di che io non sarò più qui.
Casa mia è dove scelgo di restare.
Casa mia era un’isola nel mare
Lì sono nato, da lì sono scappato
prima che il fisco mi avesse incastrato.
Casa mia era un’isola nel mare.
Dove aspetto il becchino è casa mia
– un bicchiere di vino, un libro di poesia:
come sala d’attesa non è la peggio che ci sia.
Dove aspetto il becchino è casa mia
‘Casa mia’ è una canzone non molto familiare.
Quel che porto con me è tutto ciò che è mio
E sulla strada aperta mi sento proprio io.
‘Casa mia’ è una canzone non molto familiare.
Cantatela, voi altri, se proprio lo volete,
– la conoscete ormai bene la melodia –
lasciatemi alla mia fame di vagabondo,
alla mia sete.
Dove appendo il cappello è casa mia.
Dove appendo il cappello è casa mia.
trad. Riccardo Held
Argonauta Argo (p.50)
da Callimaco
Una volta ero una conchiglia prodigiosa e egoista,
dea dei promontori, e adesso sono tutta tua,
sul tuo, da quando Selenea mi ha donato.
Oh un tempo ero un argonauta, dice la canzone,
argonauta argo, ero un nautilus di carta,
e quando c’era vento agitavo le braccia
come piccole vele, solcando veloce i mari,
così pensava Aristotele, naturalmente sbagliando,
e Callimaco, che più avrebbe dovuto saperne.
Quando una bonaccia cristallina regnava,
una calma di cristallo, e oziosa sorrideva
la Nereide sul oceano, remavo forte con i tentacoli
vivevo dentro il mio nome, finché alla fine
son finito spiaggiato su una spiaggia di Kea, nelle Cicladi
e di certo sarei finito in kakavia
prima dell’alba se non fossi stato vecchio e gommoso;
e ora, e ora, sto a far da ninnolo nel tuo tempio,
Arsinoe, sono una busta vuota,
i miei messaggi d’amore di un passato passato
letti tra le lacrime e perduti; non fanno più il nido in me
nemmeno gli alcioni (oh, ho sofferto
di immodestie all’epoca mia, ne ho viste di cose).
Considera con benevolenza, o dea, le preghiere
della figlia di Clinia, c’è del buono in lei,
– nel modo in cui la sua gonna svolazza
mentre svolta nell’agorà –
e viene da Smirne eolica.
trad. Barbara del Mercato
Muro di palazzo a Dorsoduro (Palace Wall, Dorsoduro, p.62)
Quesi mattoni potrebbero avere seicento
anni, e tra uno e l’altro ormai non c’è
nemmeno un briciolo di malta
– un monello spenzolato
dal parapetto di una barca
potrebbe illuminarli
con la luce di una torcia
e vederci attraverso:
un sous-chef in calzoncini
spina un branzino su un piatto blu.
È come se il sole e la salsedine
avessero sbriciolato la malta
fino a farne una sabbiolina fina che scende
attraverso la vita stretta della clessidra,
o come se dinastie parassitarie
avide di tritume
si fossero mangiate dogadi interi,
per lasciare questo palazzo in piedi
(però storto) per miracolo, unica colla
a tenerlo su: la certezza di sé.
Ed ecco il vecchio Alvise
puntuale come il sorgere della luna
con la sua sporta di cibo per gatti
(la nipote albergatrice
distoglie lo sguardo):
la parsimonia per lui è una novità
ma una scatoletta la assaggerà, se serve.
Nella soffitta, raggiunta da un ascensore di servizio,
vessilli costellati, trafugati a Lepanto,
montano di guardia al suo baldacchino.
trad. Barbara del Mercato
Tempo di andarsene (Time to be Leaving, p.67)
Un’ ultima occhiata in giro per la casa, non c’è
più niente di tuo a parte, qui, la tua tuta jeans
dimenticata chissà come da quelli delle pulizie,
appesa ancora al suo solido piolo,
nella tasca due ghiande e una moneta dissepolta,
con il suo velo pallido di fango. E anche il blù della tuta dilavato
si stempera come le tue vecchie pupille lamentose
che chiedono perché mai appena arrivati
sia già subito tempo di andarsene.
Si è fatta lisa e bianca per stare inginocchiata
e rimettere a posto dopo noi. Adesso è il nostro turno.
trad. Riccardo Held
Esther (p.73)
Il lavoro lo chiama. Deve alzarsi e rispondere.
Preferirebbe stare a letto, anche se lei –
la sua amante, la sua compagna, la sua musa –
non c’è. Se n’è andata dalla madre
a Lubecca, o questo ha addotto come scusa.
Verificare sarebbe facile, ma indegno,
e poi il lavoro chiama imperterrito.
Potrebbe restarsene un po’ a sognare,
di quella cameriera diciamo chez Bertrand,
riandare coi ricordi per vecchi letti,
ma il lavoro insiste, anche se meno
e più raramente, certo: a volte in compagnia
finge che sia così, con mirabili scuse
abbandona il gioco, inclina il cappello
al cassiere sornione . . .
“Il lavoro!” diranno. “Almeno
è fedele. Quella gran donna, quella Muse:
le sue avventure sono note in tutta Aix.”
Le loro chiacchiere lui potrebbe scriversele da sé,
e l’ha fatto, solo che nessuno se n’è accorto:
né il grasso Gaston con le sue Gitanes spente
né Piotr nel suo cappotto liso . . .
Il lavoro lo chiama, e per una volta
suona sincero: nitido richiamo, nota pura –
come Esther quando scendeva per i vigneti
cantando per non impaurirlo
in quegli anni di paura, la loro ficelle
mattutina imbracciata come un fucile.
trad. Monica Pavani
Dove sei? (p.74)
Oggi, Franci, una chiatta col tuo nome,
ti riporta indietro vivida come una foto,
ti ridipingo punto a punto, insolente polena
che sfida l’Atlantico, mentre si abbatte
sugli scogli di Moher, trattenendo a stento
il tuo cappello a strisce.
Ti penso adesso, imbucata in quella città satellite,
con il tuo venditore di utensili di Novellara:
hai poi finito la tua laurea,
mia improbabile filosofa, la tua tesi sulla verità?
Era bellezza la tua, o in realtà eri soltanto giovane?
E quella cosa ce l’hai ancora?
Sei segnata da sogni inaciditi
facendo i salti mortali e spingendo
un carrozzino al ipermercato?
Continui a sperare?
Mi piacerebbe che la maternità fiorisse in te
pazza come un banco di azalee,
e che uomini già sposati due volte,
perdendo la testa nel tuo suburbio da entroterra
comprassero barche proibitive
per battezzarle con il tuo nome.
trad. Riccardo Held
Guardarla (Watching Her, p.75)
Il riflesso del suo riflesso
sta immergendo un fazzoletto
in qualcosa che non è in vista
e lo applica a un angolo della bocca.
ma cosa sta facendo?
sta ritoccando un eccesso di rossetto?
tampona una piccola ferita?
Guardarla è sempre questo
guardare attraverso due specchi
e voglia di saperne di più.
trad. Riccardo Held
Guardando Beato Angelico (After Fra Angelico, p.76)
C’è una Cacciata dall’Eden incastonata
in alto a sinistra, nell’angolo di questa Annunciazione.
È lì, dobbiamo supporre, che ha inizio la storia.
Quell’angelo androgino, strano a dirsi, un doppio di Adamo,
è triste, si vede, che si giunga a tanto.
Anche se la lunga spada che incalza alla schiena il reietto
non lascia dubbi, una lieve mano sulla sua spalla
sembra lì a confortare almeno quanto a sospingere.
Adamo è ancora stordito da quello che ha fatto,
quella sua zappa da bambini rafforza la nostra idea:
una vita di duro lavoro non sa cosa sia.
Quelle gambe bianche e glabre e le dita sottili
mostrano quanto inadatto sarà (lo presente anche lui)
a strappare zizzania.
Eva è sconvolta anche lei. Non capita mica ogni giorno
che ti caccino dal Paradiso.
Ma già nel suo sguardo si vede un “facciamo buon viso”,
e poi sarà lei, si capisce, che prende le redini in mano.
Molti anni dopo potremo sentirla sgridare Caino,
perché non tormenti Abele in cortile.
E fargli capire che fortuna hanno avuto:
hanno imparato come si veste la campagna
e si spoglia al capriccio delle stagioni,
hanno terra fruttuosa e docile il bestiame…
E poi (questo forse non lo dice) anche il sesso è migliore,
da quando il suo cavaliere ha i muscoli ed è bene abbronzato.
La metà migliore di lui, ormai, è lei la sua creatrice, pensa:
Adamo, nel bene e nel male, il Primo Uomo.
trad. Riccardo Held
Il primo ad andarsene (The First to Go, p. 78)
per Charles
È così che ti rivedrò sempre, tu che ti volti
ai piedi del ponte, con il tuo lungo cappotto scuro,
un velo d’ombra sotto gli occhi, ma non cedi,
il coraggio non ti manca, in fondo:
sarà stata l’ultima
o la penultima volta che ci siamo visti
Ebbene, uno di noi doveva pure
andarsene per primo,
ed è toccato a me
Vedi, non mi sarei mai aspettato
di svegliarmi, né tantomeno qui,
in questa casa di riposo dell’anima
dove non c’è stagione che sollevi l’anno,
e nulla riflette questa luce piatta.
Pallidi ci trasciniamo da mattina a sera –
ne avessimo, di mattine,
ne avessimo, di sere
Sempre, vecchio mio, è una parola,
è un mondo che ci sorprende piano
trad. Monica Pavani
Mercoledì pomeriggio a Sant’Elena
(Wednesday Afternoon on St Elena, p.79)
Lucia se ne va vestita di bianco:
l’acacia, la magnolia, il viale dei tigli
bloccano istantanee del suo progressivo sparire . . .
Il famoso merlo bianco di Sant’Elena
si nasconde da qualche parte nei giardini:
è timido, come se prendesse atto
che qualcosa è andato storto
– forse gli basterebbe essere nero . . .
Lucia se ne va sotto i tigli
senza voltarsi indietro
trad. Monica Pavani
A volte compongo . . . (Sometimes I Dial . . , p.80)
Mi ricordo, Firenze negli anni settanta,
come i giovani di leva infestavano la stazione,
nel pomeriggio di libera uscita e osservavano
i treni partire per casa.
Potrei citare l’Ernest affamato, che fissa i pasticcini
nella vetrina dorata della Pâtisserie Depestre,
angolo di rue Legendre
e rue de Rome.
Come le nostre stesse dita errano sulla ferita..
A volte compongo le prime cifre del tuo numero
sapendo che tuo marito è in casa. La tua
camicia da notte è ancora qui tra gli asciugamani.
La foto di noi due che passeggiamo a Sligo
fatta da mia sorella – quella che ogni volta
riuscivo appena a far sparire
quando portavi qua i bambini –
spunta dallo scaffale, mi sfida
a incontrare il nostro sguardo.
trad. Riccardo Held
Contre tous (p.81)
‘Il robot naviga in modo autonomo
costruendo una mappa dell’area attraversata’
– Musée des Arts et Metiers, Parigi
Non sembra difficile, se ce la fa
anche una stupida macchina!
– dedurre dove siamo adesso
da dove eravamo . . .
Mi ricordo, par exemple,
noi due mano nella mano
in aprile, sul Pont des Arts;
tirava un gran vento
e il tuo foulard preferito
volò giù controcorrente
scivolando sotto di noi
come una macchia di seta . . .
– rien à faire!
disse un damerino en passant,
sporgendosi a guardare,
dommage! gli fece eco l’alce
sua sposa, e scossero
il capo all’unisono,
come boules mécaniques . . .
Certo sì, era Parigi,
e soffiava vento dall’ovest:
questo stando ai fatti;
ma non fu quella l’ultima volta
che ridemmo contro il mondo
noi due alleati?
trans. Monica Pavani